L’analisi di una delle più importanti fasi del Giudizio penale, quella della “Decisione”, rimessa al “libero convincimento del Giudice” e al suo “equo apprezzamento”, ci impone un riguardo scientifico alla sua attività neuro-psichica, frutto di una riflessione effettuata alla luce della destinazione delle prove prodotte dalle parti (accusa e difesa), come rimesse alla sua “cognizione”, che lo inducono ad una sentenza per l’imputato di condanna o assoluzione. Tale presa d’atto comporta che l’obiettivo della ricerca non si esaurisca nella semplice constatazione del comportamento tenuto dal Giudice, per considerarne la sintonia con le prescritte regole del codice di rito e per inferire se le prove raccolte siano consequenziali alle conclusioni riportate in sentenza, secondo un criterio “logico-deduttivo”, ma nell’attenzione ulteriore ai processi cognitivi dispiegati ed esibiti di fronte alle prove opposte dalle diverse parti. La Decisione finale nel processo penale, infatti, come dimostrano le Scienze Cognitive e le Neuroscienze, si manifesta come il risultato di attivate componenti cerebrali e di circuiti neuronali, ineliminabili, che possono influenzare, significativamente, anche un soggetto esperto, come il Giudice, il quale, pur nella convinzione di essere stato “terzo”, animato da ragioni normative e da interpretazioni fattuali, potrebbe essere giunto, in perfetta buona fede, ad una convinzione finale perturbata dalle sue visioni e concezioni, avendo dovuto fare i conti con la sua dimensione umana e sociale, non immune da errori sistematici del ragionamento, da trappole cognitive, da distorsioni generate dall’intuizione e da insidie cognitive ed emotive.
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